Estratto III

  Nel University Club sul quinto piano del centro universitario, parlo con Ines della communità italiana di Guelph, e come la communità italiana si è trasformata da quando era arrivata all’inizio degli anni cinquanta fino a oggi. Quando è arrivata nel 1951 con sua madre e suoi sei fratelli, la communità italiana era ancora piccola. C’era una manciata di famiglie italiane che erano venute prima della guerra, però queste famiglie si erano integrate rapidamente nella società canadese di Guelph. Me dice che c’erano solamente cinque o sei famiglie del nord d’Italia quando è arrivata lei, però ci sarà stato un afflusso di immigranti italiani durante i decenni a venire. 

     Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, Ines si ricorda dell’afflusso di italiani a Guelph, dicendo che ci sono stati cento ragazzi che erano venuti alla città alla ricerca di una vita più prosperosa. In confronto alla grande industria dell’edilizia a Toronto, in cui gli immigranti italiani hanno costruito la metropolitana, Guelph non aveva tanti lavori. C’erano una manciata di imprese, come Pirelli e Malleable Iron, però la communità italiana era sempre più piccola di quella di Toronto. Ines parla delle esperienze del suo padre quando aveva cominciato a lavorare a Guelph, dicendo che lavorava con impegno nei giorni prima delle leggi sulla retribuzione oraria. Dice che nonostante la difficoltà della vita per gli nuovi immigranti in Canada, questi uomini non volevono mai tornarsi in Italia, in cui la economia era distrutta dalla guerra. La tenacia degli nuovi immigranti gli hanno aiutato di perseverare a metà dei tempi difficili e creare una vita meglia in questo nuovo paese.

     Un tema che emerge durante la nostra discussione sulla communità italiana a Guelph è la divisione tra  la gente del nord e del sud d’Italia. Ines me dice che i trevisani, come la sua famiglia, si sono stabiliti su Elizabeth Street, vicino alla chiesa di Sacred Heart. D’altra parte, le famiglie del sud, sopratutto siciliane e abruzzesi, si sono stabiliti nel quartiere di Oliver Street e Manitoba Street, e erano due communità molto distinte. Ines parla del pregiudizio che veniva qualche volta di questa divisione tra le famiglie meridionali e le famiglie settentrionali, dicendo che i figli erano scoraggiati di sposarsi con qualcuno dell’altra parte d’Italia. Adesso, me dice che la situazione è cambiata molto, e le communità sono molto più aperte.

      Ines si ricorda la cresenza della communità da cinque o sei famiglie a una communità vivace con più di cento nuove famiglie che erano venute per gradi dopo la fine della guerra. Per alloggiare tutti questi ragazzi che venivano dall’Italia, c’erano delle persone nella communità che accettavano dei pensionanti: Ines si ricorda che c’era una donna con tredici giovani pensionanti che erano venuti per lavorare. C’era un gruppo di famiglie che sono diventate amiche, e andavano spesso alle scampagnate con la communità italiana, e andavano anche alla chiesa ogni settimana. Parlo con Ines del Italian Canadian Club, e la chiedo si era mai coinvolta con quell’organizzazione. Me ha detto che all’inizio, era molto coinvolta, però negli anni più recenti la communità è diventata troppo grande, e non c’è più il stesso senso di communità. 

     Sopratutto, Ines parla con positività delle sue esperienze nella communità italiana di Guelph. Lo direi delle sue riflessioni che questa piccola communità italiana aveva avuto un ruolo molto importate per gli nuovi immigranti di addatarsi alla vita in Canada. Me dice che “Canada era sempre buona con me”, e è chiaro che era sempre grata per le opportunità che Canada l’aveva offerto. La storia di Ines è una storia di duro lavoro, perseveranza, e della speranza in creare una buona vita negli anni difficili dopo la guerra. Me racconta una lezione importante da queste esperienze, dicendo che l’empatia è una qualità molto importante nella vita. Me dice che quando deve fare una decisione importante, nella carriera e anche nella vita, sempre prova a mettersi nei panni di qualcuno. Si chiede: “se fosse io, che farei?”